Mi avrà mandato al diavolo
XXII, 1-2-3 (gennaio-febbraio-marzo 1969)
Si faceva ancora un po' d'illusione sul potere magico della pubblicità e — in genere — sull'Arte che deve servire a ornare la vita. I poeti, i pittori, i filosofi godevano le sue simpatie; aveva in uggia i burocrati. Arrivò a tal punto a credere nella parola poetica che non trovò affatto straordinario mettersi lui stesso a scrivere per traslati. Nella storica «campagna» di qualche anno fa, quella degli scioglilingua, che fece scalpore presso i benpensanti, riuscì nientemeno a rifare il verso di Duchamp, di Desnos, a utilizzare il nonsense dadaista a fini di seduzione. Ricordate gli esquimesi che schivano le quisquilie e le ecchimosi, o Nausicaa che spiega la musica alle lumache?
A lui che era un candido, in fatto d'arte, che non era passato attraverso nessun seminario, che non aveva subito la tonsura, piaceva il giuoco, piaceva la libertà. Credeva nella religione del bello e del gratuito quando gli stessi artisti se ne infischiano del sacro e del sublime. Pensava all'ispirazione, al miracolo, ora che i poeti si sono tecnicizzati, hanno chiesto aiuto ai calcolatori. Era commovente la sua fede opposta allo scetticismo degli stessi sacerdoti.
Egli è stato l'ultimo caposaldo a resistere contro l'assalto delle Agenzie, delle ghenghe, delle congreghe, delle équipes, delle percentuali, delle taglie. Gli uomini della sua scuderia sono oggi gli unici a conoscere qualche manfrina e qualche segreto del mestiere. Quei pochi centri di resistenza che pure esistevano a Milano sono caduti nelle mani dei sociologi e dei semiologi. Codificata in norme, statuti, leggi, provvedimenti, codicilli, la pubblicità ha rinunciato a tutto il suo tesoro, la sua tradizione, la sua capacità inventiva, per servire soltanto il buon senso e la statistica. Niente più colpi di testa e coups de foudre. Soltanto impiombature e, in qualche caso, occultismo e sessuologia.
Pensavo, fino a qualche anno addietro, che il nostro mestiere fosse quello del giornalista, dell'architetto, dell'illustratore. Ora vedo bene che il «deus ex machina» è soltanto il fotografo; tutti gli altri, compresi gli psicologi e gli economisti, sono suoi umili servi. Aveva conosciuto il Mostro che sembrava prima un agnellino, poi diventò un montone, si trasformò in tigre, eccetera: un essere che aveva fatto corpo tutt'uno col suo strumento, l'obiettivo fotografico, simile a quei mostri cari a Ernst o a Sutherland, mezzo uomini e mezzo macchine, che rappresentano l'incarnazione odierna del Minotauro. Seppe tenere duro a questo assalto, a questa furia. Alzò coraggiosamente i vessilli dell'ispirazione, dell'invenzione, dell'improvvisazione. E finchè ci fu lui, nessuno ebbe il coraggio di sputarci addosso.
Arrigo non si sarebbe aspettato da me un piagnisteo. Tante volte mi avrà mandato al diavolo per via delle mie scontentezze irritanti. Mi sfogavo con lui che mi sapeva prendere, conosceva il mio debole, mi faceva grandi elogi: «La tua lettera è bellissima ma il tuo giudizio è ingiusto...». «Fammi lavorare per te» continuavo a celiare. «Sarebbe bello, ma chi lavorerebbe per noi?».
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