Elastici circolari profumati
XX, n.6 (novembre-dicembre 1967)
Anelli per dentizione, per ombrelli e salva orologi
Bavarole
Berrette per ghiaccio
Borse per acqua calda, riscaldapiedi e riscalda stomaco Cinture da nuoto
Cipolle per soneria
Grembiali per bambini, per nutrici e per signore Iniettore o clistere a pompa
Insufflatore Galante
Palle di ricambio
Pere per cornette
Pere per estrarre l'olio dai fiaschi
Plaids o grembiali per cocchieri
Schizzetti, soffietti e spruzzatori
Tettine e tettaruoli
Vesciche per occhi e per cuore
Nel genere arte idiota, arte commerciale, poesia su commissione, poesia tecnologica, diciamo pure poesia d'occasione, ci sarà molto da scoprire. Sarà una bella festa per chi ci ha creduto, per chi ci crede; per chi non ci crede più, saranno pianti, rabbia e rimorsi. Il dominio dell'anonimo è sconfinato. Quante falde da perforare, e per ogni falda un fossile, una sorpresa, un'indicazione. Non c'è bisogno di spingere la trivella fino all'abisso dei cinque o seimila metri come ho visto fare nei campi già succhiati del Mar Rosso o negli aridi deserti marocchini. Basta un sondaggio superficiale nelle ere della paleo-tecnica, ma anche più in là e più in qua, l'era del purismo, del neogotico, l'era aerostatica, del becco a gas, della ferrovia a cavalli, l'era di Viollet-le Duc, di John Ruskin, di Thonet, dell'elettrolisi, dei refrigeranti, del telegrafo, della bicicletta, dei profilati, del cloroformio, del cemento armato.
Il resto è dell'altrieri, come diceva Dossi, è di ieri. Recentemente un filosofo strutturalista ha condotto un'indagine sulla moda negli anni del dopoguerra, servendosi di materiale anonimo, tolto di peso da giornali, riviste, calendari, opuscoli di categoria solitamente sottovalutati. Roland Barthes è andato nell'esplorazione a una profondità non raggiunta, vent'anni fa, dall'architetto Bernard Rudofsky con le sue analisi sui segreti della «sartoriasi». Rudofsky si era appunto fermato all'epidermide, alla spoglia. Aveva contato i bottoni che portiamo addosso, aveva riconosciuto nei lacci delle scarpe, nella cravatta, nella sciarpa, nella cinghia alcune metamorfosi del Serpente, aveva studiato la disposizione delle cinque dita dei piedi, separando l'alluce dal gruppo rattrappito degli altri quattro, fino a proporre l'uso universale del sandalo (by Bernardo) al posto della scarpa, come si vide per anni su «Harper's Bazaar». Il viennese Rudofsky, israelita, milanese ad honorem, di vocazione napoletana, poi brasiliano, prima di diventare newyorkese, voleva già allora rivoluzionare il nostro abbigliamento; ma non appoggiava le sue tesi sulla vastità della gamma dei colori come avevano fatto Giacomo Balla e Marinetti che suggerivano abiti verdissssimi e azzurrrri e nuovi pigmenti a base di fosforo e di fluoro. Si fermava al taglio, al progetto, al design, non chiedeva soccorso alla fisica, alla chimica; raccomandava soltanto l'uso più controllato, più rigoroso delle forbici, dei fili, dell'ago, ma soprattutto uno straordinario buon senso. La critica condotta da Barthes servendosi di una documentazione così effimera, le effemeridi appunto e le riviste femminili, riflette intrinsecamente il nostro modo di esprimerci, di scoprirci o di nasconderci attraverso un vestito. Non l'essenza dunque, e nemmeno la funzione, ma la simulazione. Il vestito è uno strumento come l'automobile e la casa, è un rituale come la partita a tennis e lo chignon, lo chewingum e la sigaretta drogata. Chi ha fatto man bassa in questi documenti di storia della tecnologia e del costume, e se n'è servito allo stesso modo dei paleografi, dei paleontologi, degli archeologi, degli antropologi, e diciamo pure dei criminologi e degli psicanalisti, è stato Sigfried Giedion nel suo grande libro «Spazio, tempo e architettura». Forse voi sapete che gli esperti riescono a «datare» un manoscritto con l'approssimazione di mezzo secolo, se considerano il ductus della scrittura, ma possono sbagliare solo di un anno o due una volta individuate certe forme di abbreviazione, certi tic o sistemi o regole distintive di una équipe di amanuensi o di notai. Chi legge Giedion si sorprende della quantità spropositata di ingredienti spuri che l'autore inserisce nella sua mistura. La critica di Giedion, allievo di Burckhardt, è condotta con l'ausilio dell'amateur, del collezionista oltre che dello storico. Il discorso su Roma, su Londra, su Parigi è sviluppato attraverso documenti di archivio, curiosità da bibliomane, fanatismi da raccoglitore. Tanto che il libro rassomiglia a un album, a un almanacco piuttosto che a un trattato. Del resto che cosa rimane ancora vivo per noi di tutto lo scibile illuminista radunato nella Grande Enciclopedia di Diderot e d'Alembert? Le incisioni in rame raccolte in appendice. Raffaele Carrieri, per esempio, possiede la sequenza delle tavole dedicate alla lavorazione dei guanti. Io stesso conservo gelosamente alcuni fascicoli (la fonderia, l'orologeria, la selleria, la calligrafia): quei tratti rigidi, scheletrici, l'alternanza di vuoti e pieni, di bianco, di nero, di grigi strinati e nervosi, mi richiamano insieme Morandi e De Chirico (il figlio dell'ingegnere delle ferrovie) e conciliano in modo quasi sublime liricità e astrazione. Ma il consumatore più insaziabile e più geniale di queste icone profane, stralciate da album, opuscoli, dizionari, cataloghi, campionari è certamente Max Ernst e dietro di lui tutta la schiera dei surrealisti. Mentre i devoti del chiaroscuro operarono con la punta del lapis, il trasloco delle suppellettili più dimesse — pettini spugne spazzole forbici tube eccetera — in un clima di dormiveglia, di sonnambulismo. A parte balì che adopera il cauciù per simulare la sua paranoia, per alimentare la sua schizofrenia. La cosa più semplice da scoprire in queste tavole della Pirelli, è la forza occulta, l'atmosfera spiritata — il fluido avvertito dai medium e dai prestigiatori — che recinge come un'aureola i manufatti turgidi, lisci, omogenei, asettici e li solleva, li distacca da noi a mezz'aria, a mezzo cammino tra vita e memoria. Anche qui, inconsciamente, i manipolatori di immagini e di messaggi, di sogni e bisogni, di corpi e di beni hanno fatto ricorso al principio dello «straniamento», hanno trasformato un prodotto in un feticcio. Senza la malizia e la nausea dei pittori pop ma l'ingenuità dei pittori di insegne e di ex-voto. Si potrebbero chiamare «trionfi»: si tratta di un'araldica allestita con simboli umili, come faceva Arcimboldi con le sue allegorie fabbricate con gli ammennicoli più spuri e più vili. I confini tra il vero e il verosimile, tra l'evento e il miracolo, tra l'oggetto e la metafora sono qui distrutti. Nel senso e con lo scopo preciso di evitare dissidi tra natura e artificio, tra crudo e cotto.
E' una complicata manipolazione che porta a questi esiti esaltanti, una pratica, un processo di cosmesi che rasenta l'imbalsamazione. La civiltà dei consumi sta già preparando i suoi archivi, il suo museo, la sua leggenda. Nasce il collezionismo del transeunte contro i conservatori dell'eterno. Non soltanto le vecchie locomotive vanno al posto delle Vittorie e delle Veneri (i seni di lattice e di siero sono certo più ammirati dei seni di marmo, e l'evergeta elettrodomestico viene a mortificare l'orgoglio dei maschi) ma i bidets salgono sui piedestalli riservati alle Anfore e ai Vasi. Questo campionario di articoli di merceria, di igiene, di chirurgia fu stampato a Milano nel 1898, l'anno della morte di Mallarmé. Raduna settantanove tavole litografiche. L'autore e lo stampatore sono anonimi. Le tinte sagomate, unite, sono indifferenti, non sono i colori espressivi significanti della natura o della pittura. Polveri ricoprenti sopra il segno inciso e il chiaroscuro sgranato. Più che dei fanatici dell'arte popolare, queste tavole faranno la delizia dei sempre più scarsi e più agguerriti ammiratori del quieto, calmo, misterioso neoclassico. Qui c'è prudenza e stile, non c'è la sciatteria e l'improvvisazione. Certe riproduzioni del Laocoonte, silografie e litografie dei libri di Le Taroully, i disegni delle botteghe e delle fabbriche, il design, appunto, più che il disegno, la precisione più che l'effusione stanno nelle mire modeste degli autori.
Faccio due nomi, Savinio e Magritte. Su questa scia mitologica e surreale bisogna ritrovare la clarté, la regola, la divina idiozia che permetteva a piccoli uomini, a piccoli poeti di fabbricare puliti, incantati assemblages, gli herbiers, i rituels, gli atlas cari a Mallarmé, appunto, e queste pere, vesciche, clisteri cari a noi, suoi indegni nipoti.
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